top of page

Luca Carabetta and Davide Zanichelli - Members of the Italian Parliament

Gli ospiti di questa #FintechInterview sono gli Onorevoli Luca Carabetta e Davide Zanichelli, entrambi membri della Camera dei Deputati impegnati sul fronte Fintech.



Iniziamo parlando di costituzione online di società: l’opinione di molti è che il passaggio da un notaio assicuri maggiori controlli, ignorando il fatto che dietro ci sono comunque i controlli antiriciclaggio da parte delle banche. Quindi volevo sapere da te, Luca, quale fosse la tua opinione al riguardo e come mai c’è così tanto ostruzionismo riguardo alla costituzione online di società.


Carabetta

Per prima cosa grazie, è un piacere per me essere qui. Se fosse vera la teoria che tramite il notaio si hanno controlli maggiori, oggi non vivremmo in un Paese in cui le società delinquono e hanno problemi di diverso tipo. Tutto ciò si smentisce nei fatti: nei Paesi in cui non c’è alcun tipo di controllo notarile, i dati non dicono che si delinque molto più che in Italia. Detto questo, noi non vogliamo andare contro il principio di legalità, ma diciamo che anche in sede di costituzione online c’è una firma digitale che risponde ai criteri antiriciclaggio, c’è una validazione di un pubblico ufficiale in Camera di Commercio, che rappresenta già un passaggio istituzionale. Infine, come giustamente dicevi, quando si fanno i conferimenti di capitale in banca, dal minuto zero l’istituto bancario ha già tutto il profilo della società, molto di più di quello che può fare un notaio. In tema di segnalazioni antiriciclaggio si sente dire che i notai fanno il 90% delle segnalazioni; come al solito è una mezza verità. Fanno il 90% delle segnalazioni antiriciclaggio del totale dei professionisti, che è il 4% del totale, mentre il 60-70% è fatto da banche o istituti simili perché hanno tutti gli strumenti telematici e informatici per incrociare banche dati e effettuare controlli di antiriciclaggio. È da marzo che lavoriamo su questo tema, nel frattempo è intervenuta una direttiva europea che chiedeva agli Stati membri di attivare percorsi di costituzione online per le società di capitali, passando da un pubblico ufficiale. In Italia questa cosa è stata interpretata come “passando da un notaio”. Ad oggi la situazione non è buona perché la legge europea è stata approvata e i decreti ministeriali sono già partiti. Ci sono pressioni enormi su questo fronte perché si fa presto a semplificare, ma nel momento in cui viene fatta una norma c’è un soggetto economico che perde una rendita di posizione. Questo è il grande scoglio.


Un altro tema molto caldo è l’accesso ai capitali da parte delle startup: a mio parere, in Italia per ricevere un round pre-seed o seed una startup ha già una certa traction sul mercato e di conseguenza idee più complicate che necessitano di risorse prima di lanciare un prodotto difficilmente ricevono soldi. Come si può migliorare questo?

Dall’altra parte, qual è il ruolo dei fondi?


Carabetta

Nel 2018 abbiamo costituito CDP Venture Capital, che è riuscito a reggere il mercato nel momento della pandemia: ha attivato dieci veicoli e agisce su diversi segmenti, dal seed in avanti. Questa cosa probabilmente andava fatta 15 anni fa: abbiamo un gap decennale con Francia e Germania, un po’ meno nei confronti di Spagna e Portogallo, che comunque hanno creduto in questo ambito e hanno investito sia dal punto di vista dei capitali, sia dal punto di vista regolatorio. Sono contento che sia stato rifinanziato il fondo con due miliardi, è un punto di partenza. Per la crescita dell’ecosistema dei capitali, secondo me la cosa migliore sarebbe contaminarsi. Avevamo in progetto (e spero si faccia prima della fine della legislatura) di costituire un fondo tramite il Ministero degli Esteri SIMEST per attrarre esclusivamente capitali esteri. Questo perché i capitali esteri sono più grandi, sono più skillati, hanno più esperienza e porterebbero un grosso aiuto in questo mercato che è nano. Avevamo ipotizzato un fondo di circa 300 milioni in grado di attrarre una decina, forse una dozzina, di operatori esclusivamente esteri.


Credi che questo incentivo basti a far entrare i fondi o il fatto che ci siano poche aziende che riescono a diventare scale up può inibire la presenza di fondi esteri?


Carabetta

Questo è come un cane che si morde la coda: non abbiamo tante scale up perché non ci sono i fondi o non ci sono i fondi perché non ci sono tante scale up? Penso che la verità stia un po’ nel mezzo. Nel mercato del capitale di rischio, si valutano modelli di business con previsioni che molto probabilmente si riveleranno sbagliate; pertanto si decide di investire nel team, anche se chiaramente l’idea di business e le competenze di base devono esserci. Non penso però che sotto questo profilo noi siamo inferiori ad altri Paesi. Dal lato dell’offerta di capitali, qualcosa si potrebbe fare, ad esempio un’azione politica come quella di Macron aiuterebbe l’attrazione di risorse estere: Macron ha lanciato un piano da dieci miliardi per l’intelligenza artificiale e innovazione e io conosco tanti ragazzi che dall’Italia sono andati in Francia. Chiudo su questo dicendovi che presenterò una proposta su quelli che vengono chiamati “nomadi digitali”( o remote workers), ossia lavoratori che vengono in Italia a lavorare per l’estero. Questi possono poi decidere di stabilirsi qui, lavorare per aziende italiane, fondare startup. È una norma a costo zero, come tante altre che si possono fare per attrarre talenti, che poi possono fare imprese e attrarre capitali. Secondo me noi abbiamo la materia prima, ma fino ad oggi altri Paesi europei sono stati molto più attrattivi di noi: mi riferisco a Spagna, Portogallo, Germania e Francia.


Per quanto riguarda le competenze dei fondi, ritieni che sia un problema?


Carabetta

Il mercato italiano è piccolo e il problema dei mercati piccoli è che sono anticoncorrenziali. Nel momento in cui fai un fondo di fondi che ti porta sul mercato una pluralità di soggetti esteri, diciamo una dozzina (che è tantissimo rispetto al mercato del VC italiano perché gli operatori VC in Italia sono meno di 30), ti portano concorrenza, ti portano persone e gli stessi fondi italiani sono spronati a fare meglio. Anche sulla gestione di fondi non siamo secondi a nessuno in termini di skills, solo che poi vanno a lavorare da altre parti; magari un mercato interno aiuterebbe.


Davide, si è parlato moltissimo recentemente di euro digitale: la Cina ha fatto lo yen digitale, anche gli Stati Uniti si stanno muovendo su questo fronte, mentre in Europa si dice che forse tra cinque anni ce l’avremo. Un’altra cosa che mi ha colpito è che l’euro digitale verrà costruito sull’attuale infrastruttura dei pagamenti e quindi non potrà contenere smart contract. Qual è la tua visione riguardo all’euro digitale e se può rappresentare un sostituto alle cryptovalute.


Zanichelli

La differenza è che mentre la Cina ha intenzione di eliminare il denaro contante, la Banca Centrale Europea vuole affiancare l’euro digitale al denaro contante. In seguito all’aumento della spesa su piattaforme digitali, la BCE vuole dare uno strumento gratuito per poter acquistare e spendere online. La moneta elettronica attuale, invece, non è gratuita perché sono servizi a pagamento che ricadono sul consumatore. Inoltre, la BCE, vedendo arrivare lo yen digitale, ha una seria preoccupazione, ossia che il digital yuan possa uscire dai confini cinesi e sul nostro territorio inizi a circolare un’altra moneta. Per questo, vogliono creare un altro mezzo di pagamento che possa essere digitale e allo stesso tempo giustifichi la compresenza di monete diverse. Un altro motivo a favore dell’euro digitale è avere un’altra leva di comando per l’attuazione di politiche monetarie, visto che il quantitative easing non si è rivelato sufficientemente efficace a rialzare l’inflazione. Dal mio punto di vista, però, le monete elettroniche di banche centrali non sono cryptovalute: infatti, le cryptovalute non sono semplicemente la circolazione su internet di valore, ma hanno un aspetto che le CBDC non hanno, che è la decentralizzazione. L’euro digitale è una passività della banca centrale, con un controllo da parte di un’istituzione centralizzata, le altre sono per definizione decentralizzate. Concludo con un aspetto secondo me interessante: la banca centrale non ha nessuna intenzione di scardinare gli equilibri con le banche commerciali e gli altri istituti di pagamento e questo secondo me è un peccato. L’avvio di un nuovo sistema di pagamenti elettronici ha la possibilità di far venir meno rendite di posizione consolidate portando maggiori vantaggi per i cittadini. Introdurre una moneta elettronica che non ha un impatto su banche e istituti di pagamento è solo un’innovazione a metà. Questo è uno dei problemi che avrà l’euro digitale, insieme alla preoccupazione della BCE che le persone possano accumulare euro digitale per le sue caratteristiche vantaggiose e abbandonare la moneta tradizionale: riguardo a questo, probabilmente attiveranno dei cap al di sopra dei quali verranno applicati dei tassi negativi.


Quali sono i costi per la BCE di implementare una tecnologia del genere? Dal momento che non vogliono sostituire il metodo tradizionale, il risultato sarà uno sdoppiamento dei costi?


Zanichelli

Io penso che i costi per un’infrastruttura di questo tipo, totalmente diversa, non siano paragonabili alle spese per gli euro di carta, i cui costi sono sostenuti dai privati (basta pensare a quanto la grande distribuzione deve spendere per gestire i contanti) e dalla banca centrale nella produzione di cartamoneta. Le spese per un’infrastruttura informatica non arriveranno a cifre rilevanti rispetto ai potenziali benefici in termini di politica monetaria. Gli ostacoli non sono di natura economica, è più un problema di equilibri.


Dal punto di vista ambientale, quali sono i punti in comune e le differenze fra euro digitale e cryptovalute?


Zanichelli

Le cryptovalute hanno due diverse forme di sostegno dell’infrastruttura decentralizzata: una è la proof of work, che è quella energivora, e l’altra è la proof of stake, dove è l’utente a tenere in piedi il nodo, non tanto per prova di energia messa a disposizione, ma proprio perché conserva una parte del nodo e quindi dà un suo contributo. Le cryptovalute tipicamente hanno la proof of work; l’euro digitale non avrà niente di tutto questo e quindi non avrà necessità della prova di valore e di impiego energetico da parte di altri operatori. Quindi, da questo punto di vista, sono intrinsecamente diverse proprio perché le cryptovalute si sostengono grazie alla decentralizzazione, mentre la CBDC fa riferimento alla banca centrale, non ha bisogno di nessuna proof of work o proof of stake perché è la sua stessa autorità che ne emette la fiducia e ne garantisce il sostegno.


Tornando al discorso crypto, credo che gli scenari possibili siano due: o diventano too big too fail perché troppe persone hanno investimenti in crypto, o la Banca Centrale interviene con forza e ne limita l’utilizzo. In quale delle due direzioni interverrà la Banca Centrale?


Zanichelli

Ci vuole un indovino per rispondere a questa domanda, io posso mettere sul piatto alcune delle preoccupazioni che circolano all’interno delle istituzioni. Da un lato c’è il contemperare la libertà delle persone: in fin dei conti, questa è un’infrastruttura informatica, girano informazioni, girano numeri. Pertanto si potrebbe anche vietare alle persone di scrivere dati al fine di salvaguardare il risparmio o la stabilità finanziaria, ma è molto complicato nella teoria e soprattutto nella pratica. C’è da dire che se nel frattempo arriveranno ad essere una realtà too big too fail diventerà difficile limitarne l’uso.

In generale se staremo a guardare, il rischio è che a un certo punto i nostri cervelli se ne vadano altrove e che qua in Italia risulteremo come utilizzatori di tecnologie sviluppate all’estero da nostri concittadini. Pertanto, non chiudiamoci a priori delle porte perché ne pagheremo il prezzo in futuro


Carabetta

Dopo il ban della Cina, la FED e il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti si sono affrettati a dire di non volere abbandonare le crypto perché chiaramente rappresentano un’opportunità economica. Nel momento in cui un mercato come la Cina, dove c’è la stragrande maggioranza di miner di bitcoin, viene bloccato perché deve essere controllato dal governo, gli Stati Uniti, pur con aspetti regolatori, si sono iniziati a muovere. La BCE va un po’ a traino, secondo me e Davide dovrebbe esserci più spinta perché rappresenta un’opportunità economica, non solo sotto il profilo dei pagamenti. Sul fronte della finanza decentralizzata, oggi è possibile avere un prestito, partecipare a emissione di token, c’è il tema del metaverso e il gaming. Ignorare questo mondo da parte delle istituzioni è poco lungimirante.


In questo contesto, come può la regolamentazione essere non tanto uno strumento difensivo, quanto un mezzo per beneficiare dei vantaggi della decentralizzazione? Ritieni che la regolamentazione debba essere creata ex-novo, ripresa da quella già esistente oppure una via di mezzo mediante un approccio più flessibile.


Zanichelli

La risposta è nel mezzo: per alcune cose partire dalla base normativa esistente è più semplice, ma può essere sbagliato. Per quanto riguarda le cryptovalute, si dibatte se siano moneta o asset, se siano strumento di pagamento o riserva di valore; io penso che la risposta corretta non sia nessuna delle due. Cercare di imbrigliare in una regolamentazione esistente qualcosa di totalmente nuovo è complicato, in quanto non sono né l’uno né l’altro; la differenza è che su uno ci paghi l’IVA, sull’altro no. Quindi, in questo caso rifarsi a una struttura normativa esistente è peggio.


Quindi una parola chiave è flessibilità, proprietà che appartiene anche alla sandbox regolamentare recentemente introdotta in Italia. Come pensate questo strumento possa aiutare la transizione digitale del nostro Paese?


Zanichelli

Secondo me, la sandbox è stata un’iniziativa estremamente positiva. Quando parliamo di realtà dinamiche e innovative, ci siamo resi conti che è necessario creare dei ponti tra chi innova e le autorità regolamentari, soprattutto perché spesso le due parti ancora non si conoscono. La sandbox offre dei canali a chi vuole sperimentare in certi settori per poter dialogare con Banca d’Italia, Ivass e Consob. Da quanto ci è stato riferito, questi canali sono stati attivati e si stanno rivelando proficui: infatti, mentre nei settori industriali tradizionali i canali fra imprese e istituzioni sono già consolidati, nel fintech sono ancora tutti da creare. È positivo che dalle istituzioni ci sia stata un’apertura, dal momento che dialogare e interagire con progetti innovativi permette di crescere tutti assieme come comunità.


Ci sono già stati degli effetti positivi della sandbox?


Carabetta

È stata attivata da poco, quindi servirà ancora un po’ di tempo. Sulla sandbox vorrei chiarire una cosa: si tratta di un “recinto temporaneo in cui giocare”, quindi il problema non è solo creare questo strumento, ma abbassare il gradino che uno deve fare nel momento in cui esce dalla sandbox e va sul sistema tradizionale. Infatti, è possibile che quello che viene sviluppato nella sandbox non possa essere fatto sul mercato. L’idea che dobbiamo avere della sandbox non è solo lo sviluppo di progetti innovativi, ma il cambiamento di alcune norme che si sono rivelate obsolete durante le sperimentazioni. In questo senso è fondamentale la connessione con gli enti regolatori, che devono seguire passo dopo passo e vedere se effettivamente una cosa sperimentale sul piano regolatorio possa essere trasferita sul sistema tradizionale, al fine di ridurre lo “scalino” in uscita dalla sandbox.


In che modo il capitale privato può essere d’aiuto a quello pubblico per affrontare la transizione digitale?


Zanichelli

Il risparmio privato rappresenta una grande opportunità: ci sono 1.800 miliardi di euro sui conti correnti degli italiani. Si tratta di risparmi fermi sui conti e non presenti nell’economia reale, quindi sono inefficaci. Se ci pensiamo, è una cifra di ordine di grandezza superiore al PNRR. Quei soldi rappresentano la sfiducia degli italiani rispetto agli investimenti: se si riesce a indirizzarli verso l’economia reale, per esempio attraverso strumenti parzialmente garantiti, potrebbero supportare la transizione digitale. Quindi, non sono tanto i soldi a essere un problema, sono i canali a dover essere definiti. Se questo non era un problema qualche anno fa quando l’inflazione era all’1%, ora che si sta rialzando la cifra di 1.800 miliardi perde ogni anno 40 miliardi: sostanzialmente una perdita di valore pari a una manovra finanziaria annuale. Secondo me, questa è una delle più grandi sfide che dobbiamo affrontare: se riusciamo a fare in modo che parte del risparmio privato entri nell’economia reale mediante investimenti di qualsiasi tipo, digitali e non solo, allora abbiamo una leva per il rilancio del Paese.


Concludiamo chiedendovi dei consigli per studenti come noi, che studiano queste tematiche e che si trovano a dover scegliere che carriera intraprendere.


Zanichelli

Ragazzi continuate a studiare e ad essere curiosi, anche quando uscirete dall’università e avvierete una carriera professionale. Non chiudete la porta alla formazione, di qualsiasi tipo e non per forza tecnico-scientifica: questo è il mio suggerimento.


Carabetta

Io aggiungo una cosa nel merito specifico del mondo della finanza: vi invito a leggere “Strategia oceano blu”, uno dei libri che forma in generale chi si occupa di innovazione. Oggi il mondo della finanza innovativa in Italia è un oceano blu, cioè un mondo dove sostanzialmente non c’è competizione, dove ogni iniziativa può attrarre capitali, dove c’è una platea di clienti potenziali enorme e dove abbiamo un gap notevole da recuperare rispetto agli altri Paesi. La scommessa è che dal nulla ci sia qualcosa in futuro, le istituzioni potranno aiutare in questo, ma penso che si debba investire in questo ambito anche attraverso la formazione personale. Le innovazioni che stiamo vedendo sulla finanza decentralizzata non sono portate avanti da grandi corporazioni, ma sono piccole startup che tutti i giorni tirano fuori tantissime proposte innovative. Per me l’ambito di cui vi occupate voi è uno dei più motivanti e che ha più opportunità di sbocco futuro; il mio consiglio non standard è fare anche altro mentre studiate. Infatti, dal mio punto di vista, completate molto di più il percorso universitario se lo arricchite con un’esperienza professionale o ulteriore formazione personale.


Authors:


Comments


bottom of page